[Articles] Lavoro sociale e giustizia climatica: verso nuovi paradigmi?

Marco Palma (2025)

Sintesi
La crisi climatica ha profonde implicazioni sociali, e il lavoro sociale si trova di fronte a nuove complessità. Nel dibattito istituzionale assistiamo all’uso di molti concetti che evocano scenari differenti e, in alcuni casi, conflittuali. D’altra parte, i processi di urbanizzazione planetaria pongono sfide su diverse scale spazio-temporali che rendono più complessa la definizione della giustizia. L’articolo propone una riflessione sulle prospettive del lavoro sociale, individuando nel concetto di giustizia climatica l’elemento intorno al quale (ri)definire le sue modalità d’intervento.

Parole chiave: sostenibilità, adattamento, giustizia climatica, lavoro sociale, urbanizzazione

Social work and climate justice: towards new paradigms?

Summary
The climate crisis has profound social implications, and social work is confronted with new complexities. In the institutional debate, we observe the use of many concepts that evoke different and, in some cases, conflicting scenarios. Moreover, the processes of planetary urbanization pose challenges on various spatio-temporal scales, making the definition of justice more complex. The article proposes a reflection on the perspectives of social work, identifying the concept of climate justice as the element around which to (re)define its modes of intervention.

Keywords: ecological social work, sustainability, adaptation, climate justice, urbanisation

1 Introduzione

Una vasta letteratura ha analizzato le implicazioni della crisi climatica sulle questioni sociali e sulle ineguaglianze (Barca, 2024; Malm, 2016; Moore, 2016; 2024). Da una parte, gli studi hanno evidenziato il contributo sproporzionato alle emissioni climalteranti, individuando nella ricchezza un moltiplicatore esponenziale dell’impatto sul clima (Alestig et al., 2024; Oxfam, 2021); d’altra parte, molte ricerche hanno sottolineato l’ineguale vulnerabilità di fronte ai

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cambiamenti e agli eventi estremi legati al riscaldamento globale (Trott et al., 2023; Gardiner, 2011), facendo emergere sia che le popolazioni che hanno contribuito meno a causare la crisi climatica sono maggiormente colpite dalle sue conseguenze (Sultana, 2022), sia l’impatto diversificato che spesso hanno le politiche di adattamento e mitigazione (Miller & Mössner, 2020).
Per rispondere appropriatamente alla sfida e tracciare relazioni tra crisi climatica e diseguaglianze sociali, il lavoro sociale deve conoscere il cambiamento climatico (Dominelli, 2010), le sue cause, le sue conseguenze e le sue implicazioni. D’altra parte, i social-worker possono contribuire alla pianificazione delle politiche climatiche, specialmente in ambito urbano, favorendo l’emergere della dimensione sociale della crisi climatica (Dominelli, 2011).
Comprendere non solo la dimensione fisica e climatica del riscaldamento globale, ma anche il suo essere un fenomeno sociale, è dunque di primaria importanza per riflettere intorno al ruolo che può giocare il lavoro sociale nella crisi climatica in atto. Tuttavia, soprattutto – ma non solo – nel dibattito istituzionale, assistiamo all’uso di molti concetti differenti che, spesso, sono utilizzati come sinonimi: sostenibilità, adattamento, resilienza, giustizia climatica, sono vocaboli sempre più inclusi nelle strategie locali, nazionali e internazionali. Questi concetti, invece, evocano scenari differenti e, in alcuni casi, conflittuali, che necessitano di essere approfonditi per evitare che le loro implicazioni sociali possano essere vanificate da un utilizzo inappropriato. Che sia una scelta consapevole, oppure una scarsa consapevolezza delle profonde differenze e dei divergenti significati che essi esprimono, la confusione che spesso si genera intorno a questi concetti ha implicazioni profonde sia per le politiche climatiche che per quelle sociali. Queste si sommano a ciò che la letteratura definisce come un approccio tecnocratico alla progettazione urbana, nel quale anche le politiche climatiche sono racchiuse in una dimensione tecno-scientifica e tecno-ottimistica che emargina le dimensioni sociali (Wagle & Philip, 2022).
Una discussione sul ruolo del lavoro sociale nell’era del riscaldamento globale non può non muovere da una chiara definizione di tali concetti e da una precisa scelta rispetto alla collocazione dello stesso lavoro sociale in un campo semantico che è, allo stesso tempo, politico e sociale. Inoltre, la dimensione urbana è particolarmente rilevante per l’impatto sulle emissioni climalteranti e per i processi di urbanizzazione planetaria (Brenner & Schmid, 2015; Swyngedouw & Kaika, 2014), ed è necessario un approccio integrato che sappia districare le interconnessioni tra processi economici, politici, sociali ed ecologici (Swyngedouw & Heynen, 2003). Da questo punto di vista, mentre vi sono progetti che pianificano nuove città ipertecnologiche e sostenibili (Cugurullo et al., 2023) che e(sc)ludono i processi sociali, creando nuove enclave ambientali

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di privilegio, il ruolo del lavoro sociale può essere anche quello di contribuire alla pianificazione di soluzioni urbane che concretizzino il concetto di giustizia climatica. Per farlo, è necessario riflettere intorno alle inter-scalarità urbane delle (in)giustizie climatiche, individuando le dimensioni sociali del riscaldamento globale.
Come emerge da queste righe, è necessario approfondire quali siano la collocazione e il ruolo del lavoro sociale all’interno di società sempre più attraversate dalle nuove quotidianità prodotte dal riscaldamento globale. Come l’obiettivo del lavoro sociale di mitigare le ineguaglianze sociali si concilia e converge con l’urgenza di mitigare le emissioni climalteranti e la necessità di affrontare le conseguenze e gli impatti del riscaldamento globale sui gruppi sociali più vulnerabili? Come trovare risposte alle sfide interscalari poste ai social worker dai processi di urbanizzazione planetaria (Brenner, 2001; Brenner & Schmid, 2015)?
Al fine di analizzare il potenziale contributo che il lavoro sociale può dare nell’affrontare le cause e le conseguenze del riscaldamento globale e comprendere le nuove sfide che il cambiamento climatico pone di fronte ai social worker, questo articolo è suddiviso in cinque parti: il primo paragrafo è dedicato a definire la crisi climatica come fatto sociale, mentre il successivo descrive i concetti di sostenibilità, adattamento, resilienza, giustizia climatica, a partire dall’ampia letteratura esistente, indicando le implicazioni di questi diversi significati per la il lavoro sociale; segue un approfondimento sul concetto di giustizia climatica e le sue relazioni con la dimensione urbana; infine, prima di giungere alle conclusioni, viene discusso il ruolo del lavoro sociale nel costruire processi per la giustizia climatica.

2 La crisi climatica, un fenomeno sociale

Negli ultimi decenni, report e studi internazionali hanno evidenziato la correlazione tra riscaldamento globale e attività antropiche. Tuttavia, limitarsi a considerare il ruolo umano nel cambiamento climatico non è sufficiente a spiegare il fenomeno: una consolidata letteratura ha dimostrato i nessi tra sistema economico ed emissioni climalteranti e, all’interno di essi, ha fatto emergere il tema delle diseguaglianze sociali sia come cause della crisi climatica, sia come conseguenza di essa (Malm, 2021; Moore, 2016; Oxfam, 2021). Alcuni autori considerano il capitalismo una vera e propria forza geologica, ovvero un’ecologia-mondo capace di (ri)definire le condizioni sociali ed ecologiche del Pianeta (Moore, 2023): il capitalismo è anche la storia di una profonda trasformazione degli ecosistemi (Crosby, 1972), e quindi delle ragioni sistemiche che hanno prodotto il cambiamento climatico.

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Lo studioso svedese Andreas Malm sottolina che “il cambiamento cli matico ha le sue radici fuori dal reame delle temperature e delle precipitazioni, delle tartarughe e degli orsi polari, e si colloca all’interno della sfera delle prassi umane che potrebbero essere riassunte con la parola lavoro” (Malm, 2016, p.14). Secondo Malm, la nascita del capitalismo ha prodotto una serie di scelte che hanno indirizzato la storia lungo un percorso in cui l’uso del vapore e l’eccessivo sfruttamento dei combustibili fossili hanno influenzato in maniera determinante i passi storici successivi. Questo percorso, che affonda le sue radici in Gran Bretagna e nella Prima Rivoluzione Industriale, ha imposto lo sviluppo di alcune tecnologie e l’abbandono di altre. Ad esempio, Malm sostiene che la scelta di viaggiare in auto piuttosto che in tram, in bicicletta o in treno, sia una conseguenza dello sviluppo di una vasta infrastruttura energetica basata sul petrolio, che ha impedito ad altri mezzi di trasporto di diventare predominanti (Malm, 2016).
Il suo riferimento al lavoro come al concetto che può riassumere le prassi umane sulle quali si fonda la crisi climatica evidenzia immediatamente il ruolo giocato dalle diseguaglianze. Non soltanto perché il lavoro è la forza che stravolge gli equilibri ecologici (Gorz, 1959) e lavorare è l’appropriazione di cosa esiste in natura per i bisogni dell’uomo, ovvero la condizione universale per l’interazione metabolica tra uomo e natura (Marx, 1867). Ma anche perché il lavoro – insieme alla riproduzione sociale – è storicamente uno dei campi principali nei quali si esprimono sfruttamento e ineguaglianze. Alcuni autori affermano che la Rivoluzione Industriale sia stata possibile non per l’introduzione della macchina a vapore, ma per il lavoro schiavistico nelle Americhe che ha permesso all’industria tessile britannica di avere grandi quantità di cotone a basso costo (Ghosh, 2021), mentre altre analisi sottolineano il ruolo sociale piuttosto che tecnico della macchina a vapore, il cui vantaggio è stato dato dal fatto che questa – a differenza delle macchine idrauliche – potesse essere collocata ovunque, permettendo di ricavare un surplus di ricchezza dal lavoro (Malm, 2016).
Se consideriamo il lavoro come prassi umana alle radici della crisi climatica, possiamo affermare che il riscaldamento globale è un fenomeno sociale e politico che, tra le sue conseguenze, annovera il mutamento di condizioni ambientali e climatiche le quali, a loro volta, producono impatti diseguali. Essendo un fenomeno sociale, esso si radica nelle diseguaglianze storiche prodotte dai cicli di accumulazione del capitale, perpetuandole, rafforzandole e rinnovandole. Il legame tra diseguaglianze e crisi ecologica è alle radici della costruzione della società attuale (Smith, 1984), che ha fondato la sua economia attraverso lo sfruttamento delle nature a buon mercato (Moore, 2024). Il riscaldamento globale, dunque, si esplicita attraverso mutamenti fisici e

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chimici che hanno a che fare con l’atmosfera, le geografie, la meteorologia, gli eco sistemi, ma il combustibile che lo alimenta sta all’interno della dimensione delle relazioni sociali. Questo, come vedremo, ha profonde conseguenze nelle forme che assumono le narrazioni sulla crisi climatica, e i concetti intorno ai quali esse ruotano, ma anche nelle politiche adottate a differenti scale per affrontare la sfida esistenziale posta dall’aumento delle temperature medie. Per queste ragioni, è necessario approfondire i concetti di sostenibilità, adattamento, resilienza e giustizia climatica.

3 Definire sostenibilità, adattamento, resilienza, giustizia climatica

Come abbiamo visto nell’introduzione, i concetti di sostenibilità, adattamento, resilienza e giustizia climatica sono spesso usati come sinonimi, nonostante portino con sé significati sociali, ecologici e politici molto diversi e, spesso, conflittuali. La definizione di questi concetti va approfondita a partire dall’assunto che una certa modalità di presentazione del mutamento climatico è funzionale alla sua gestione tecnocratica e depoliticizzata (Morton, 2018). Non è sufficiente, quindi, una lente ambientale, ma questa va intrecciata con le dimensioni sociali e politiche del riscaldamento globale, nonché con la lettura della distribuzione del potere che tali concetti portano con sé.

3.1 Sostenibilità

Con sostenibilità si fa riferimento a una serie di azioni volte a rendere meno impattante l’impronta ecologica delle attività umane. Si tratta di un concetto entrato stabilmente nel lessico dei decisori politici, ma anche di grandi corporation. Ha un forte legame con la sfera individuale dei comportamenti, ma non interroga né la dimensione sistemica che ha prodotto il riscaldamento globale, né la distribuzione ineguale delle conseguenze di quest’ultimo sulle società, ed elude il tema dell’accessibilità a forme di quotidianità meno impattanti.
Con il crescere di fenomeni estremi legati al riscaldamento globale, la sostenibilità è diventata l’obiettivo di enti locali e istituzioni internazionali, tanto che essa è perseguita sia dalle Nazioni Unite – in particolare attraverso i Sustainable Development Goals – sia da decine di migliaia di Comuni europei e nord-americani, che negli ultimi due decenni hanno redatto i propri Sustainable Energy Action Plan. Basati su indicatori quantitativi – come la riduzione delle emissioni climalteranti o dei consumi energetici – questi piani per lo più omettono la sfera delle relazioni sociali: pur riconoscendo che esistono poveri e ricchi che subiscono diversamente le conseguenze della crisi climatica, infatti, essi tendono a proporre soluzioni tecnologiche che non affrontano le cause delle diseguaglianze, ma piuttosto cercano di produrre azioni che riducano

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l’impronta ecologica dei processi che affrontano. Queste azioni sono basate su indicatori quantitativi che misurano in particolare la riduzione delle emissioni climalteranti, un obiettivo che può essere raggiunto anche attraverso meccanismi compensativi che hanno nel sistema internazionale dei crediti di carbonio uno dei maggiori esempi pratici.
La sostenibilità è diventata un obiettivo dichiarato anche dalle multinazionali che hanno giocato un ruolo importante nell’aumento delle temperature: pensiamo, per esempio, alle corporation delle fonti energetiche fossili che investono in sistemi di cattura e stoccaggio dei gas climalteranti. Esse traducono questo obiettivo nella cosidetta greeneconomy, nella quale il limite ambientale non è un vincolo, ma un’opportunità di profitto che, spesso, trova nei meccanismi compensatori e nell’elaborazione del paradigma dello sviluppo sostenibile una formula per coniugare sostenibilità e business as usual. Queste prospettive assumono il dogma del carbon-trading, ovvero l’enfasi esclusiva sul ruolo salvifico del mercato, come elemento intorno al quale costruire nuove opportunità di investimento corenti con la diffusione di pratiche sostenibili (Leonardi, 2017).
Focalizzandosi sull’impronta ecologica, il concetto di sostenibilità elude le dimensioni sociali e politiche della crisi climatica. Se da un punto di vista teorico, infatti, “la valenza politica della sostenibilità è da sempre evidente nel suo connettere integrità ecologica a giustizia, equità e benessere” (Pellizzoni, 2017, p. 28), da un punto di vista empirico è facile osservare come l’uso politico di questo concetto abbia appiattito le differenze sociali e limitato la sua capacità trasformativa. Esso affronta la mitigazione – ovvero la necessità di ridurre le emissioni climalteranti – attraverso una lente orizzontale che presuppone la dicotomia tra natura e cultura e, all’interno di essa, cerca punti di equilibrio; nel farlo, non disconosce l’esistenza di diseguaglianze e discriminazioni, ma afferma che un miglioramento dei parametri ambientali ed ecologici possa portare benefici diffusi e lineari che, però, non fanno i conti con le disuguaglianze esistenti.

3.2 Adattamento e resilienza

Se la sostenibilità è la ricerca di forme meno impattanti delle prassi umane, l’adattamento prende le mosse dal riconoscimento che le emissioni climalteranti cumulate (Gardiner, 2006) negli ultimi secoli abbiano già prodotto dei cambiamenti irreversibili, capaci di influenzare negativamente la qualità della vita, di peggiorare le condizioni sanitarie e di rendere più vulnerabili gli ecosistemi e i sistemi sociali.
Le strategie di adattamento hanno acquisito sempre maggiore rilevanza nelle politiche istituzionali, e prevedono misure attive o passive che

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possano ridurre l’impatto delle conseguenze del riscaldamento globale sui territori e sulle società. Spesso prevedono interventi infrastrutturali volti a rendere i territori – e le popolazioni che li abitano – meno vulnerabili agli eventi estremi – siccità, alluvioni, ondate di calore –, e quindi più resilienti. Resilienza è un concetto che ha attraversato diversi campi disciplinari, ma “il suo trasferimento dall’ambito biofisico a quello sociale non è privo di problemi” (Pellizzoni, 2017, p. 29). Rappresentata metaforicamente dalla canna di bambù – che nel vento si flette, ma non si spezza – la resilienza promuove la capacità dei sistemi sociali complessi – e delle infrastrutture sulle quali si snodano le relazioni sociali – di superare momenti di crisi, come gli eventi meteorologici estremi.
Questa coppia di concetti esprime tuttavia molti profili di criticità che interrogano in forme diverse l’agency umana. A differenza della mitigazione, l’adattamento e la resilienza presuppongono un disequilibrio permanente da fronteggiare, lasciando dunque in secondo piano ciò che ha scatenato la crisi, o accettando implicitamente la non negoziabilità delle caratteristiche economiche, sociali e politiche che causano il disequilibrio. Alcune analisi hanno sottolineato l’impossibilità di ignorare che l’adattamento rappresenti (anche) un grande business (Fünfgeld & Schmid, 2020). Pur riconoscendo la necessità di adattare le prassi sociali alla nuova realtà climatica, infatti, non possono essere sottovalutate le spinte a inserire pienamente queste strategie all’interno del paradigma economico dominante, rendendo resilienti i presupposti su cui questo si fonda, e facendo compiere alle politiche di adattamento un’ulteriore passo verso la de-politicizzazione della crisi climatica (Miller & Mössner, 2020). Inoltre, come approfondiremo anche nel paragrafo dedicato alla dimensione urbana, le strategie di adattamento rischiano di conservare le disugliaglianze sociali e di crearne altre, perché se da una parte i gruppi sociali più poveri e marginalizzati sono spesso quelli colpiti più duramente dalle manifestazioni della crisi climatica, essi sono anche quelli che hanno minori capacità individuali di adottare soluzioni resilienti (Newell et al., 2021). D’altra parte, le politiche infrastrutturali inscritte in questi concetti possono rafforzare fenomeni di espulsione e gentrificazione. Non a caso, parlando di adattamento, Fünfgeld e Schmid si domandano “in che misura l’adattamento stesso aumenta o diminuisce le possibilità di forme di (in)giustizia esistenti ed emergenti” (Fünfgeld & Schmid, 2020, p. 438).

3.3 Giustizia climatica

Il concetto di giustizia climatica nasce a cavallo tra le mobilitazioni sociali, la discussione accademica, e il dibattito istituzionale internazionale, subendo – in particolare grazie ai movimenti sociali – una profonda metamorfosi che ha

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messo in discussione la compatibilità tra riduzione delle emissioni e centralità del mercato su cui si basano le politiche internazionali sul clima (Leonardi & Imperatore, 2023). Alcune autrici e autori collocano nel ciclo di mobilitazioni che hanno accompagnato le Conference of the Parties (COP) – che discutono annualmente l’attuazione del United Nations Framework Convention on Climate Change (UNFCCC) – lo spazio nel quale il concetto si è trasformato, non limitandosi più a definire una giustizia tra stati del Nord e Sud globale diversamente responsabili delle emissioni climalteranti, ma contestando “gli impatti diseguali del cambiamento climatico, sia a livello geografico sia sociale” (Chatterton et al., 2013, p. 603), e quindi rendendo la giustizia climatica un concetto complesso e pluri-scalare.
Affrontando la questione della giustizia, esso ha a che fare sia con lo sbilanciamento delle responsabilità che con le diseguaglianze dovute all’implementazione di azioni di mitigazione e adattamento (Beretta & Cucca, 2019). La giustizia climatica, dunque, ha diverse traiettorie storiche, “ma è tipicamente interpretata sia come giustizia in relazione alle responsabilità per il cambiamento climatico e i suoi impatti, sia come giustizia per quel che riguarda gli effetti delle azioni in risposta al riscaldamento globale” (Newell et al., 2021, p. 3).
Come avviene per molti concetti, anche quello di giustizia climatica è percolato all’interno del discorso istituzionale, ed è citato in strategie locali e internazionali, come per esempio quella elaborata dalla città di Amsterdam (Municipality of Amsterdam, 2020). Nelle relazioni internazionali, esso è uno degli elementi intorno al quale ruotano le rivendicazioni del Sud Globale che ha storicamente contribuito marginalmente al riscaldamento globale, mentre i Paesi più ricchi hanno prodotto gran parte delle emissioni climalteranti traendone enormi benefici economici.
Nella letteratura accademica, la giustizia climatica si compone di quattro pilastri (Newell et al., 2021): quello del riconoscimento (recognitional), quello distributivo (distributional), quello procedurale (procedural) e quello intergenerazionale (intergenerational).
La dimensione del riconoscimento ha a che fare con le diverse responsabilità che accennavamo poche righe fa rispetto alla crisi climatica, perché “il cambiamento climatico che la Terra sta vivendo attualmente è principalmente il risultato delle emissioni di un certo periodo del passato, piuttosto che delle emissioni attuali” (Gardiner, 2006, p. 403). In altre parole, esiste un costo della crisi climatica accumulato nei secoli che, però, ha permesso la crescita della ricchezza per una piccola minoranza della popolazione globale, che in questo modo ha beneficiato di un vantaggio esternalizzandone i costi ambientali. Ciò è vero storicamente, ma anche da un punto di vista contemporaneo: diversi

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report internazionali, infatti, evidenziano che, per esempio, mentre l’80% della popolazione globale non ha mai preso un aereo, l’1% degli umani che vivono sul Pianeta è responsabile di metà delle emissioni legate al settore dell’aviazione a causa dell’aumento dei voli privati (Jasper & Sander, 2023). Nel Regno Unito, invece, gli studi hanno fatto emergere che “l’1% dei lavoratori più abbienti è responsabile in un solo anno della stessa quantità di emissioni di anidride carbonica prodotto dal 10% più povero nell’arco di oltre due decenni” (Garcia & Stronge, 2022, p. 5).
La dimensione distributiva interroga primariamente le diseguaglianze che influenzano le vulnerabilità di fronte al riscaldamento globale. Nell’affrontare le conseguenze di un’alluvione, per esempio, chi possiede più appartamenti in luoghi diversi ha maggiori possibilità di superare la catastrofe di chi ha soltanto la casa che vive; la qualità e l’accessibilità economica degli alloggi, invece, sono anche tra le cause della ‘povertà energetica’, ovvero della percentuale di reddito che una persona spende per l’energia, e rende le famiglie vulnerabili di fronte al possibile aumento dei prezzi legato alla transizione verso energie rinnovabili (Kashwan, 2021). Diverse ricerche, inoltre, hanno sottolineato che, anche se le risorse e le opportunità potessero essere distribuite equamente nella società, spesso i bisogni differenti dei gruppi sociali non sono presi in considerazione nella progettazione delle politiche pubbliche (Hughes & Hoffmann, 2020).
La dimensione procedurale prende le mosse dall’iniquo accesso al potere, in particolare delle minoranze; da un punto di vista storico, infatti, le minoranze sono state – e sono tutt’ora – sottorapresentate nei processi decisionali che affrontano la crisi climatica; questo succede anche nei movimenti ambientalisti e per il clima: alcuni studi negli Stati Uniti hanno dimostrato che la sottorappresenzione degli afro-americani e di altre minoranze ha condotto alla loro esclusione dai processi di policy-making, ma anche al radicamento della convinzione sociale che tali minoranze fossero troppo povere per preoccuparsi di fenomeni complessi come l’equilibrio ecologico o il cambiamento climatico (Kashwan, 2021).
Infine, la dimensione intergenerazionale ha a che fare con il Pianeta che sarà lasciato in eredità alle prossime generazioni. Se, come abbiamo visto, il riscaldamento globale è un fenomeno resiliente, che fonda le proprie radici fisiche nell’accumulazione sul lungo periodo di gas climalteranti, le emissioni contemporanee producono cambiamenti del clima che si concretizzeranno negli anni a venire; d’altra parte, anche le scelte sociali, politiche e tecnologiche che maturano nel contemporaneo hanno un’implicazione futura, perciò producono potenziali diseguaglianze su un tempo dilatato e proiettato sui prossimi decenni e secoli.

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3.4 Quale concetto per il lavoro sociale?

Abbiamo visto che utilizzare sostenibilità, adattamento, resilienza e giustizia climatica come sinonimi produce semplificazioni che aprono la strada alla contraddizione. Nel paragrafo introduttivo, abbiamo ricordato lavori come quello di Lena Dominelli che, nell’enfatizzare il ruolo – e le opportunità – del lavoro sociale di fronte alla crisi climatica, conia la categoria di green social work, individuando una serie di sfide, tra cui “sviluppare la resilienza degli individui e delle comunità, mitigare le perdite causate dai cambiamenti climatici, contribuire a risolvere i conflitti per le risorse scarse e rispondere alle devastazioni causate da eventi meteorologici estremi, come inondazioni e siccità” (Dominelli, 2011, p. 3). A esse possiamo connettere quelle che più tradizionalmente si legano al lavoro sociale, attraverso alcune domande: con quali strumenti si garantisce il diritto a un alloggio che non sia soltanto dignitoso, ma che possa offrire una vita confortevole di fronte ai fenomeni legati alla crisi climatica, come le ondate di calore o gli eventi estremi, e permetta di implementare forme sociali e collettive di efficienza energetica? Come si affrontano le povertà climatiche, come quella energetica e quella idrica? Come si progetta socialmente lo spazio pubblico, perché esso possa essere sia veicolo di inclusione climatica – in particolare per le fasce più deboli della popolazione – sia strumento per mitigare le cause del riscaldamento globale? Come si ripensano le politiche attive del lavoro, considerando sia i rischi connessi all’esposizione ai fenomeni climatici, sia – per tornare al lavoro come forza che stravolge gli equilibri ecologici – il ruolo che esso gioca nel contribuire all’aumento delle temperature?
In questa direzione si muove una crescente letteratura che è stata ricondotta all’interno degli approcci ‘eco-sociali’, ovvero quelle forme del lavoro sociale che “combinano prospettive sociali ed ecologiche” (Matutini, 2023; Matutini et al., 2023, p. 1) e che, però, scontano ancora una dimensione sperimentale legata a singoli progetti innovativi circoscritti e, spesso, visionari. Cambiare prospettiva significa “riconoscere che esistono problemi che non possono essere affrontati nell’ambito degli approcci esistenti, e che nuove linee d’azione sono più adatte a rispondere ai bisogni emergenti” (Matutini et al., 2023, p. 2); ma, anche, muovere una riflessione sul ruolo del lavoro sociale all’interno della società, riconoscendo che “la professione del lavoro sociale è nata da radici industriali e capitalistiche” (Boetto, 2016, p. 63), e decostruendo il suo possibile “contribuito allo sfruttamento della natura” (Boetto, 2016, p. 51) prodotto attraverso “l’aiuto alle persone ad adattarsi e a partecipare a una società in cui il modello economico dominante è incentrato sui valori neoliberali dell’individualismo e della competizione” (Boetto, 2016, p. 51).

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Se questi sono i termini della questione, e se “il green social work è un paradigma teorico che mette in evidenza i legami tra giustizia ambientale e giustizia sociale, interrogandosi sul ruolo del lavoro sociale all’interno di queste sfide” (Krings et al., 2020, p. 27), il concetto di giustizia climatica appare l’unico in grado di costruire approcci coerenti con le finalità del lavoro sociale. In questa complessità, il ruolo di chi lavora nel settore ha quindi bisogno di connettere livelli individuali e collettivi, spaziando dall’advocacy alla mobilitazione della comunità (Dominelli, 2011) per aggredire i nessi che fanno della crisi climatica uno strumento di diseguaglianze. Per farlo, è necessario considerare spazi e tempi diversi, che intersechino le scale sociali, temporali e geografiche, come approfondiremo nel prossimo paragrafo.

4 Crisi climatica e dimensione urbana

Un’ampia letteratura negli ultimi decenni ha dibattuto in forma critica i processi di urbanizzazione in connessione con la dimensione ecologica e la crisi climatica. In particolare nel dibattito istituzionale, infatti, la città ha acquisito un peso sempre maggiore nel definire le politiche per affrontare il riscaldamento globale, tanto che si è diffusa la percezione, dibattuta anche in campo accademico, che le città possano salvare il Pianeta (Angelo & Wachsmuth, 2020). Questa affermazione ha a che fare in particolare con una serie di indicatori quantitativi legati alla dinamica demografica e al calcolo delle emissioni climalteranti, che evidenziano che più del 70% di queste ultime siano prodotte dalle città (Commissione Europea, 2021).
Parlando di riscaldamento globale, questi processi planetari hanno una datazione che guarda indietro nei secoli se, come afferma Jason W. Moore, tra il 1450 e il 1750 il capitalismo è diventato una forza geologica che, attraverso infrastrutture globalizzanti, ha creato una moderna Pangea di flussi biologici (Moore, 2024). Non è soltanto la dicotomia tra città e campagna a essere messa in discussione: molte analisi hanno infatti problematicizzato anche quella tra cultura e natura, affermando che essa rappresenti una regola della modernità (Zierhofer, 2002), inscritta perciò nella stessa fase storica che ha visto svilupparsi il capitalismo. Nell’osservare l’urbano, questi contributi considerano natura e cultura aggrovigliati tra loro, ovvero ibridi formati da una varietà di processi naturali di carattere biologico, fisico, chimico e dalle pratiche materiali, culturali e discorsive di diversi attori sociali in relazione – anche conflittuale – tra loro (Swyngedouw, 2004). Ne deriva che le relazioni sociali, e le relazioni tra società e non umani, sono condizionate da elementi ecologici, fattori politici ed economici, e frame culturali (Zimmer, 2010), e che queste correlazioni creano benifici

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differenti per diversi gruppi sociali, divenendo sia fondamento di discriminazioni e ineguaglianze, sia oggetti di contesa (Zimmer, 2010).
Anche a partire dall’evidenza che le emissioni climalteranti non conoscono confini, e che le conseguenze più impattanti possono esprimersi a decine di migliaia di chilometri di distanza dai territori nei quali esse sono state prodotte, il cambiamento climatico è stato concettualizzato come un problema globale; d’altra parte, esso è mediato “attraverso multipli problemi locali come la scarsità di acqua e cibo, i disastri, e i crescenti impatti sulla salute” (Fisher, 2015, p. 76). Da qualunque parte la si guardi, la questione delle scale spaziotemporali si ripropone come oggetto che taglia trasversalmente le riflessioni intorno al riscaldamento globale, e pone il problema dei metabolismi (Keil, 2020) urbani a partire dai quali si compongono, scompongono, ricompongono le prassi e le relazioni sociali, riconfigurando perennemente le dimensioni del potere e dell’azione in uno spazio urbanizzato che una vasta letteratura colloca nella dimensione planeraria (Lefebvre, 2017).
Questi pochi cenni fanno emergere la complessità che si pone di fronte anche al lavoro sociale. Da una prospettiva sociologica, infatti, giustizia significa attivare politiche per favorire una distribuzione equa delle opportunità e dei benefici all’interno della società (Monaco, 2023). Tuttavia, quanto abbiamo discusso nelle righe precedenti irrompe nelle pratiche del lavoro sociale con nuove dimensioni spaziotemporali, assimmetriche e disproporzionali. Una distribuzione lineare, infatti, non è sufficiente né a superare le diseguaglianze esistenti, né ad impedire che se ne creino di nuove. Per esempio, alcuni contributi hanno fatto emergere come, in presenza di pre-esistenti diseguaglianze economiche, l’introduzione di una carbon tax colpirebbe in maniera diseguale i diversi gruppi sociali, e quelli penalizzati sarebbero i più poveri perché, “a meno che i beni di sussistenza, come cibo, acqua ed energia non siano protetti dagli effetti inflazionistici della carbon tax, anche un livello moderato di tassazione potrebbe rendere questi beni troppo costosi per i poveri” (Kashwan, 2021, p. 8).
Tutto ciò è particolarmente evidente quando affrontiamo la dimensione urbana delle strategie climatiche. I regolamenti di efficienza energetica degli edifici che definiscono i parametri per le nuove costruzioni, per esempio, aggiungono alloggi di prezzo più elevato al mercato degli immobili, mentre la riqualificazione di quelli esistenti diminuisce la quantità complessiva di abitazioni a prezzi accessibili per le famiglie a basso reddito (Grossman, 2019). Questo accresce lo stress abitativo delle aree urbane e rende più profonde le ineguaglianze, spesso cambiando in maniera radicale il tessuto sociale di interi quartieri e creando nuove concentrazioni di povertà nella aree di disinvestimento (Grossman, 2019). Ci sono molti casi che fanno emergere questo fenomeno;

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per esempio, nella città di Friburgo in Brisgovia (Germania), la riqualificazione del quartiere di Vauban è diventata, a partire dalla fine del secolo scorso, un caso di studio riconosciuto e premiato a livello internazionale perché considerato un esempio di partecipazione dei cittadini allo sviluppo urbano (Coates, 2013) attraverso la promozione di soluzioni infrastrutturali e sociali meno impattanti dal punto di vista climatico. Il quartiere, infatti, presenta standard elevati di prestazioni energetiche e ambientali, e a una visione della mobilità basata su ampie aree pedonali e investimenti nel trasporto pubblico e nelle piste ciclabili. Nella sua progettazione, ha intrecciato le dimensioni ambientale e sociale, sia attraverso politiche abitative inclusive basate sulla forma cooperativa, sia attraverso servizi e progetti di comunità che hanno rafforzato l’integrazione. Tuttavia, nonostante il successo iniziale delle cooperative edilizie di Vauban nel fornire alloggi a prezzi accessibili (Medved, 2018), il quartiere è diventato in meno di due decenni il più costoso della città di Friburgo (Mössner, 2015) trasformandosi nel luogo di vita “di una classe media accademica, ecologica e con un reddito relativamente più alto, che ha un accesso privilegiato ai processi di partecipazione pubblica” (Miller & Mössner, 2020, p. 2249). La vicenda di Vauban evidenzia quanto le scelte sostenibili possano diventare discriminanti, fino al paradosso che, nell’ultimo decennio, un numero crescente di abitanti di Friburgo si è trasferito fuori città alla ricerca di costi di affitto più accessibili, con implicazioni sociali, ma anche effetti contraddittori sulle politiche per l’abbattimento delle emissioni, poiché il fenomeno aumenta il numero di persone pendolari che devono spostarsi utilizzando mezzi di trasporto (Miller & Mössner, 2020).
Alcune autrici e autori hanno definito carbon gentrification la preferenza di individui della classe medio-alta per quartieri che offrono l’opportunità di camminare, muoversi in bicicletta e vivere in contesti ad alta densità ambientale urbana; scelte giustificate dalla volontà di abbattere la propria impronta ecologica, ma che hanno come effetto un aumento dei costi degli alloggi in quelle aree (Rice et al., 2020). Questo avviene anche quando vengono progettate aree verdi, che ridefiniscono al rialzo il mercato immobiliare degli isolati circostanti (Guerri et al., 2022), e quando vengono realizzate nuove infrastrutture di trasporto pubblico. Lo spazio diviene elemento di diseguaglianza proprio perché la dimensione multi-scalare dei processi di urbanizzazione permette flussi di ricollocamento che, nei fatti, strutturano la vulnerabilità di fronte alla crisi climatica a partire da variabili primariamente sociali.
Tutto ciò pone il problema di leggere socialmente la multi-scalarità dei processi urbani alla ricerca di risposte su “come queste scale interagiscono e sostengono i processi di marginalizzazione: [da una parte,] come le

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ineguaglianze nei processi di decision-making globali si relazionano con le dinamiche di potere ed esclusione locali” (Newell et al., 2021, p. 7), ma dall’altra anche come dinamiche sociali, politiche, ecologiche e infrastrutturali locali impattano su scale diverse, dando vita a nuove enclave di privilegio (Beretta & Cucca, 2019) nel tessuto urbano globale.

5 Discussione: lavoro sociale e giustizia climatica

In questo quadro, emerge l’importanza della crisi climatica per il social work, così come la necessità di fare riferimento a un paradigma specifico, quello della giustizia climatica. La dimensione ecologica della quotidianità, infatti, interseca profondamente il modo in cui le diseguaglianze si perpetuano, e ne crea di nuove. Come ha sottolineato Dominelli, sfere individuali e processi collettivi si intrecciano (2011), e non è possibile scindere l’intervento puntuale dal contesto sociale ed ecosistemico. Assumere la giustizia climatica come paradigma di riferimento del lavoro sociale significa “porre la questione del come si vive, ovvero di come sia possibile sperimentare forme di esistenza alternative in nuovi contesti storici” (Ghelfi, 2022, p. 15), e pone sfide multiple e complesse.
Innanzitutto, approcciare la questione delle scale. Ogni politica sociale ha degli effetti diretti e indiretti, che nell’urbanizzazione planetaria necessitano di essere considerati e ponderati. Questo è particolarmente vero quando facciamo riferimento alla dimensione della crisi climatica. Convivono, qui, una questione etica e una questione pratica. Quella etica ha a che fare con gli impatti delle politiche attuate su spazi e temporalità differenti: ci sono effetti collaterali che hanno un impatto negativo su gruppi sociali che vivono in territori diversi? O costi da pagare che saranno messi nel conto delle generazioni future? Le scelte dei social worker – per esempio acquistare dei beni – hanno conseguenze negative – come perpetuare la marginalizzazione e lo sfruttamento – in altre parti del Pianeta (Boetto, 2016)? Quella pratica, invece, interroga le cornici entro cui si colloca l’intervento sociale: qual è la scala più efficace nell’intercettare i metabolismi che generano le diseguaglianze? Come la dimensione delle vulnerabilità individuali si colloca all’interno di un processo planetario di urbanizzazione, e come il lavoro sociale garantisce l’efficacia del proprio agire in questa complessità?
Poi c’è il tema delle diseguaglianze prodotte dalle politiche climatiche. Per esempio, la realizzazione di nuove aree verdi rappresenta certamente una forma di adattamento alle ondate di calore, e può offrire un maggiore confort climatico a chi abita le aree limitrofe, oltre ad aumentare la capacità di assorbimento delle emissioni climalteranti; può anche contribuire, in alcuni casi, a modificare le forme della mobilità in quella zona e a migliorare lo spazio pubblico rafforzando la socialità; tuttavia, l’infrastrutturazione verde del

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tessuto urbano ha come effetto l’aumento dei costi degli alloggi e senza adeguate politiche per impedire che le parti più povere della popolazione siano allontanate ed espulse da quell’area, interventi di questo tipo aumentano le diseguaglianze invece che diminuirle e fanno crescere la vulnerabilità di fronte al riscaldamento globale.
D’altra parte, gli eventi catastrofici legati alla crisi climatica interrogano con forza le diseguaglianze sociali pre-esistenti e i loro effetti in contesti post-disastro. Come abbiamo già visto nei paragrafi precedenti, i disastri naturali possono avere impatti molto diversificati tra, per esempio, coloro che posseggono solo la casa in cui vivono e coloro che hanno a disposizione più alloggi. Per i primi, perdere la casa significa perdere tutto; per i secondi, vuol dire perdere una parte – per quanto importante – del proprio patrimonio. In questi contesti, interrogarsi su come il social work adotta un approccio orientato alla giustizia climatica significa costruire strumenti di intervento ‘discriminatorio’ per favorire chi ha meno, volti a orientare l’uso delle risorse disponibili.
C’è, poi, anche la questione della consapevolezza. Di fronte al costo che alcuni gruppi sociali sono costretti a pagare per l’attuazione delle misure climatiche, infatti, l’autorevolezza del discorso sul riscaldamento globale non può che evaporare, perché queste misure diventano l’ennesimo strumento per perpetuare e rafforzare le diseguaglianze sociali. In questo senso, la necessità di affrontare la questione della consapevolezza è triplice, investe chi pratica la professione del lavoro sociale, il decisore politico e i beneficiari dell’azione delle politiche sociali: ri-pensare il lavoro sociale all’interno del paradigma della giustizia climatica rappresenta una sfida che deborda nella sfera politica.
Il ruolo che il lavoro sociale può svolgere è quindi duplice. Da una parte, quello di mitigare le diseguaglianze prodotte dalla crisi climatica, partendo dall’affermazione che esso è un fenomeno primariamente sociale, oltre che climatico. Il confort climatico delle abitazioni, le prassi del lavoro, le forme di mobilità, la definizione dello spazio pubblico, sono alcuni dei campi nei quali il lavoro sociale può cogliere questa sfida. Dall’altra, quello di intervenire nella definizione delle politiche climatiche, partendo dall’analisi delle differenti scale che intersecano questi fenomeni, per arrivare alla definizione degli impatti di singole azioni, promuovendo un approccio basato sulle vulnerabilità prima che sul bilancio delle emissioni. Un approccio trasformativo, che “va oltre le sfide immediate e prossime della distribuzione dei costi e dei benefici degli interventi sul clima” (Newell et al., 2021, p. 7) e le contestualizza all’interno delle differenze sociali e dei diversi bisogni emergenti.
Un ulteriore aspetto su cui il lavoro sociale può interrogarsi è quello di riarticolare un ragionamento e una pratica sul commoning (Stavrides, 2022),

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attraverso processi capaci sia di “(ri)creare beni comuni controllati localmente, soprattutto per i più emarginati, [sia] di lanciare una sfida geopolitica per spostare l’attuale equilibrio di potere da coalizioni di istituzioni multinazionali sempre più potenti” (Chatterton et al., 2013, p. 612) a relazioni tra pratiche di base che pongano le fondamenta per processi inter-scalari di giustizia climatica. Si ripropone, qui, la domanda su come situare il lavoro sociale tra pratica istituzionale e forme di attivismo, a partire dall’affermazione che “i ruoli degli educatori e degli operatori del lavoro sociale vanno dall’advocacy alla mobilitazione della comunità” (Dominelli, 2011, p. 3). Questa riarticolazione non può fare a meno di interrogarsi sul ruolo del modello economico dominante, e sulle sue influenze sul lavoro sociale, riflettendo sulla possibilità di ridefinire anche il concetto di de-growth – discusso nei decenni passati come scelta individuale per ridurre la propria impronta ecologica – non come questione quantitativa del fare meno, ma come questione qualitativa del fare diversamente (Akbulut, 2021); ovvero, del come fare qualitativamente in modo che le risorse disponibili siano orientate a migliorare la qualità della vita collettiva, e non a rafforzare un modello sociale ed economico che è alla base tanto delle ineguaglianze quanto della crisi climatica.

6 Conclusioni

Il cambiamento climatico è non solo un fenomento fisico e chimico, ma anche e soprattutto un fenomeno sociale. Nelle politiche istituzionali è affrontato come questione consensuale e post-politica (Swyngedouw, 2010) nella quale delle soluzioni tecno-scientifiche dovrebbero garantire allo stesso tempo uno sviluppo permanente dell’economia capitalista e le condizioni per perpetuare lo sfruttamento delle nature a buon mercato (Moore, 2024). Come abbiamo visto, l’uso di alcuni concetti contribuisce a rendere irrilevanti le dimensioni sociali della crisi climatica attraverso una settorializzazione delle politiche che divide artificialmente le dimensioni ecologica e sociale del riscaldamento globale.
Concettualizzare chiaramente le sfide del lavoro sociale attraverso le
lenti della giustizia climatica significa mettere al centro della riflessione le interconnessioni tra dimensioni individuali e collettive, sfere culturali e naturali, scale locali e globali, collocando il social work all’interno dei processi di urbanizzazione che producono metabolismi illeggibili nell’ambito delle scale tradizionali e considerando il doppio ruolo che esso può giocare, come mitigatore delle conseguenze del riscaldamento globale, ma anche come promotore di processi sociali ecologici. Questo pone al lavoro sociale una serie di sfide, a partire dalle quali può essere reimmaginata la sua azione; se, per riprendere un esempio citato nei paragrafi precedenti, gli interventi sociali a favore del diritto

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all’abitare devono considerare la nuova contemporaneità climatica, come affrontare l’interdisciplinarità e l’intersettorialità che tutto ciò comporta? Come immaginare il collocamento del lavoro sociale nella piramide degli apparati pubblici? E qual è il ruolo degli attori sociali collettivi – formali e informali – nel co-progettare interventi di giustizia climatica? A partire da queste domande, esiste un ampio spazio di ricerca empirica che potrebbe aiutare a tracciare indicazioni e prospettive.
Da una parte, come abbiamo visto, la lente della giustizia climatica comprende “la considerazione sia delle comunità emarginate che sono più vulnerabili agli impatti di un clima che cambia (come le ondate di calore, ad esempio), sia degli impatti delle politiche di mitigazione e adattamento al clima effettivamente esercitate” (Weißermel & Wehrhahn, 2024, p. 3). Dall’altra, “l’attenzione alla giustizia climatica urbana ha un’importanza sia locale sia globale” (Hughes & Hoffmann, 2020, p. 4) che pone l’accendo sulla ‘trappola scalare’ (Fisher, 2015), ovvero sulla possibilità che sia le politiche climatiche, sia quelle sociali, possano privilegiare dei gruppi sociali e impattare negativamente su altri. Anche in questo caso, la ricerca empirica potrebbe contribuire a comprendere le implicazioni multiscalari del lavoro sociale, evidenziando quali meccanismi ‘discriminatori’ possono contribuire a promuovere maggiore giustizia. Se gli studi urbani hanno ampliamente dibattuto sulle implicazioni ecologiche, economiche, logistiche, pianificatorie e sociali dei processi di urbanizzazione (Brenner, 2013), sono ancora pochi i contributi accademici che indagano come il lavoro sociale possa ripensare il proprio contributo all’interno di questa complessità.
Legare al lavoro sociale il concetto di giustizia climatica significa anche considerare che “le cause e gli effetti del cambiamento climatico, così come gli sforzi per affrontarlo, continuano a sollevare nuove questioni etiche, di equità e di diritti […], e a garantire che le risposte alla crisi climatica siano sia giuste che rapide.” (Newell et al., 2021, p. 2). Queste sfide vanno poste all’interno di un processo dialogico che sia capace di interrogare il lavoro sociale stesso, di rapportarsi con una complessità sociale crescente, nella quale la questione climatica fa da sfondo a bisogni sociali emergenti e differenziati e in cui lo statuto sociale del social work deve chiarire la propria collocazione. Uno spazio che necessariamente si pone a cavallo tra la costruzione di eque opportunità e la definizione di modelli sociali fondati su nuove epistemologie; queste ultime devono essere capaci di aprire spazi all’organizzazione collettiva e alle pratiche di commoning, e di porre “un’enfasi sull’attivismo all’interno della professione e un’attenzione alle dimensioni personali, individuali, collettive, comunitarie e politiche” (Boetto, 2016, 64) che possano mettere il lavoro sociale al centro di processi trasformativi.

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Autore

Marco Palma, University of Applied Sciences and Arts of Southern Switzerland (SUPSI), marco.palma@supsi.ch
https://orcid.org/0000-0001-6921-5550

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